Riflessioni sul “senso di comunità”
(Speriamo che la copertina sia sufficientemente esplicativa del concetto dell’articolo.)
Avvicinarsi al percorso pagano, o a un percorso magico, come ripetiamo sempre, è innanzitutto un viaggio per cambiare la propria forma mentis, per renderla conforme a quella della Tradizione magica, spirituale o religiosa dalla quale ci si sente attratti, di cui si vuole essere parte. Questo perché una Tradizione, sia magica che spirituale-religiosa, è fatta non soltanto dal mythos, cioè da una serie di rappresentazioni simboliche di azioni, forze, strutture che dal trascendente si manifestano nell’immanente; ma anche da un ethos, cioè da uno specifico carattere, che si manifesta nelle caratteristiche di un popolo o di una nazione – o, in questo caso, nel gruppo che aderiva, o aderisce, a quella certa Tradizione magica o spirituale-religiosa. Proprio per questo la definizione di “Tradizione” è elusiva: è qualcosa che va oltre la sterile ripetizione di protocolli o la cieca adesione a un credo. Al contrario, la Tradizione vive nella storia dei popoli, fatta da costumi e credenze specifici, dai quali si determinano azioni e uno specifico modo di affrontare la Storia.
Questo cambio di forma mentis spesso non viene fatto, e anziché iniziare a pensare in modo più adatto rispetto al nuovo credo – più adatto se confrontato all’ethos che vi coincide – si continuano a perpetrare vecchi schemi, portando i preconcetti dovuti al contesto sociale e religioso nel quale si è cresciuti nella nuova religione. Si cerca così di incasellare il mythos, la Tradizione, la magia, una religione diversa da quella di nascita nella scatola della comfort zone. Per non mettersi in discussione, un po’ per pigrizia, un po’ per non far traballare le scarse certezze che abbiamo quando messi davanti al Trascendente.
Ciò succede in particolare quando l’adesione a una “nuova” Tradizione porterebbe a scardinare vecchi pregiudizi. Anziché comprendere i simboli di cui il mythos ci parla e le azioni – fisiche e intellettuali – che suggerisce, si preferisce decontestualizzarlo, strapparlo dalla propria cornice culturale, per il proprio uso e consumo, tentando riletture soggettive per auto-validarsi e non affrontare la verità. Non che si tratti sempre di processi consci. Sono più spesso dei bias cognitivi, ai quali però si dovrebbe far fronte con onestà – in primo luogo ammettendo che c’è della difficoltà oggettiva a calarsi in un altro ethos, culturalmente distante.
I bias cognitivi sono un ostacolo che è necessario conoscere e superare, per smettere di auto-validarsi in modo cieco e potersi affermare come individui, persone e praticanti fuori dagli schemi di pensiero che ci sono stati imposti dalla società natale. Non è facile. Non si pretende che il cambiamento sia immediato. Insomma, tutto lo studio accademico dell’Ottocento è stato governato da questi bias: se sono stati così elusivi per grandi nomi della letteratura e della cultura mondiale, non si può pretendere che per noi sia immediato sventare questi meccanismi! Ciò che vale è lo sforzo, il tentativo di cambiare il modo in cui pensiamo, per cambiare il modo in cui agiamo, dando così un messaggio di pluralità a una società fin troppo tendente all’omologazione.
Alla fine, si tratta di un processo di introspezione che conduce a qualcosa di molto auspicabile: una maggior conoscenza e padronanza di se stessi, a partire dal nostro pensiero.
Educare la mente, aiuta a educarsi come persone. E più persone si educano, più la società si educa, scoprendosi (o riscoprendosi) nella propria umanità.
Perché abbiamo voluto portare questa riflessione proprio oggi?
Perché si apre, oggi, il mese del Pride, con il cui concetto fondamentale – quello di libertà di espressione – troviamo che la comunità pagana dovrebbe essere particolarmente in linea, e non antagonista, come spesso ci è capitato di leggere.
Partiamo da un assunto fondamentale: per alcuni, le etichette non sono necessarie, ma anzi vengono vissute come una costrizione o una limitazione nell’espressione individuale; per altri avere un’etichetta, far parte di un gruppo, potersi definire in un certo modo, è una necessità imprescindibile, perché aiuta ad esteriorizzare la forma del proprio sé. Questo vale per quanti desiderano abbracciare una nuova concezione religiosa e spirituale, oltre le sovrastrutture e i dettami della fede precedente. E vale anche per chi desidera esprimersi per quello che è, in funzione al proprio orientamento sessuale, di genere, romantico, affettivo, e così via.
Si tratta, in entrambe i casi, dell’anelito all’affermazione di se stessi come individui conformi al proprio modo di sentirsi.
Se ci pensate, questo non è diverso dal voler ostentare tatuaggi e simboli del proprio culto, al tagliarsi i capelli come Ragnar di Vikings per sentirsi più “norreni” e darsi lo slancio per cambiare il proprio codice morale. All’indossare abiti lunghi e ordinate acconciature, per essere più “greci” nei rituali ellenici, il cui primo passo è proprio l’ordine e la pulizia individuale. O all’indossare abiti medievaleggianti per sentirsi più “strega”. Il problema subentra quando manca la sostanza, ma è intrinseco nell’essere umano voler apparire agli altri – e soprattutto a sé stessi – per quello che si è realmente. Per chi si è realmente. Per quello che si sente di essere. Per come ci fa star bene essere.
È bieco il tentativo di sminuire l’espressione dell’identità di genere o sessuale (o qualsiasi altra identità) di qualcun altro, da parte di una comunità, quella pagana, che per prima lotta perché la sua identità venga riconosciuta al di là di ogni stereotipo e pregiudizio. È il voler negare ad altri un diritto che per sé si pretende, reclamandolo a gran voce ad ogni festival pagano annullato, ad ogni permesso per un pagan moot non concesso, ad ogni articolo di giornale che sminuisce, ridicolizza e addita questo o quel culto.
Se noi per primi, come comunità pagana, pretendiamo di essere riconosciuti come tali, senza pregiudizi e limitazioni di sorta, come possiamo volere che altri siano limitati nell’esprimere se stessi liberamente?
Eppure lo abbiamo visto fare – ve lo abbiamo visto fare – mille e mille volte. Con la scusa che “ma è diverso, noi parliamo di religione, loro parlano di altro”.
Sapete di cosa parla il Pride? Non di orientamento sessuale o di genere. Ma di libertà. Libertà di essere e libertà di esprimersi in conformità alla propria identità.
Non ci sono aspetti dell’identità che siano secondari rispetto ad altri. In tutti i casi si tratta di intraprendere un percorso di scoperta personale, e di necessità di esprimere le piccole scoperte una dopo l’altra, senza il timore di venire in qualsiasi modo esclusi, ridicolizzati o bullizzati, in forme più o meno gravi.
Si tratta, in realtà, di lasciare a tutti la libertà di migliorarsi – e migliorarci, nel nostro caso, come comunità.
La comunità pagana dovrebbe essere un esempio di integrazione e accettazione del diverso, una “safe zone” per chi, come noi, vive di continuo nella discriminazione perché non vuole altro che essere se stesso. È tendersi una mano a vicenda, per darsi un aiuto e ricordarsi che la battaglia che si sta combattendo è la stessa, al di là degli aspetti specifici.
Così, per questo mese di Giugno – mese del Pride – vi invitiamo a riflettere. E scegliere.
Scegliete chi volete essere. Scegliete di essere quella persona che vorreste trovarvi di fronte quando affermate di essere pagano, satanista, ermetista, alchimista. Scegliete di essere quella persona che accetta per essere accettata, che integra per essere integrata, che si afferma e lascia agli altri la libertà di affermarsi, sapendo che la diversità è potere e non debolezza.
Mostriamo a chi fa scale di libertà che la libertà non può essere ingabbiata.
La libertà, semplicemente, è per tutti.