Maledizioni e fatture: sì, no, perché?
Abbiamo raccolto il suggerimento di fare una versione “maledizioni e fatture” dell’articolo scritto per i legamenti. La cosa che ci è stata detta di più fra i ringraziamenti ricevuti è che l’articolo è stato utile a comprendere il tipo di pratica in quanto privo di giudizio morale, il quale (ovviamente) distorcerebbe sia la prospettiva dello scrivente, che quella del lettore. Siamo davvero felici che il nostro modo di scrivere esente da definizioni di categorie morali e giudizi sulle intenzioni delle persone sortisca l’effetto desiderato, ovvero fornire un’informazione pulita che ognuno possa elaborare secondo i propri criteri. Anche per questo riteniamo utile accogliere il suggerimento di parlare di maledizioni e fatture che, esattamente come succede per i legamenti, sono spesso sottoposte a un processo solo morale e non a un’analisi psicologica o tradizionale.
Il primo punto che vorremmo esporre è il seguente: le maledizioni si sono sempre fatte, ne troviamo in qualsiasi cultura e parte del mondo, per cui è ridicolo pensare che non debbano fare parte della Magia moderna o debbano essere incluse solo in risposta a grandi tragedie e oltraggi, o confinate nell’ambito di un percorso “sinistro” (il quale, per altro, se correttamente impostato, utilizza la maledizione in modo specifico e non come prima risposta, perché l’invito è quello a confrontarsi direttamente con il problema, piuttosto che aggredirlo alle spalle).
Di maledizioni ne abbiamo moltissimi esempi, relativi a diversi problemi, categorie sociali, scopi e metodi. È chiaro che si tratta di tutto un intero spettro di operazioni che, storicamente, hanno la propria dignità metodologica, psicologica e tradizionale. Questo può essere direttamente dedotto pensando al fatto che la Natura stessa è composta tanto da forze ordinatrici e creatrici, tanto da forze caotiche e distruttrici. Allo stesso modo la natura umana induce appellarsi sia alle prime, che alle seconde. Negare la possibilità o l’esistenza di fatture e maledizioni equivale dunque a precludersi un intero comparto di emozioni, quelle più violente e distruttive, e ciò non solo non ha corrispondenza con la Natura, ma diventa una costipazione delle emozioni interiori, confinate a macerare soltanto all’interno senza sfogo.
Quest’idea che il Mago o il Mistico non applichino in egual misura forze creatrici e distruttrici, ordinatrici e caotiche, è in realtà uno dei peggiori costrutti e preconcetti nella Magia moderna. Uno dei più pericolosi, perché, al contrario, tutte le Vie Tradizionali pongono un accento molto forte e chiaro sulla necessità di bilanciare i due aspetti per bilanciare se stessi. L’atto stesso dello sbilanciarsi in una direzione o nell’altra diventa la scelta che deve essere compiuta nelle varie situazioni, e il modo per crescere come persone (in quanto nella stasi assoluta non vi è alcuna possibilità né di perfezione, né di crescita). Proprio il raffrontarsi con le situazioni, accettare le proprie emozioni e capirle, e di conseguenza compiere una scelta, mostra e dimostra chi si è.
Fatta questa premessa, riteniamo che la maledizione abbia, se affrontata con spirito adatto, un potenziale valore catartico. Potenziale perché non è questo tipo di operazione in sé a costituire una catarsi e una purificazione da emozioni che altrimenti potrebbero schiacciarci, quanto piuttosto è la disposizione con cui noi la affrontiamo a determinare l’impatto psicologico che ha su di noi.
Nella pratica delle maledizioni il cardine, il vero motore, è l’estroiettazione, la proiezione di quella rabbia, desiderio di vendetta, di quel senso di oppressione e desiderio di libertà dalla schiavitù di una persona o di un sentimento. Quando si proiettano all’esterno queste sensazioni, desideri e aspirazioni non solo li si sta espellendo e liberandosene (di fatto accettandoli, elaborandoli e superandoli, il che costituisce di per sé una catarsi), ma li si sta anche affermando e, in talune circostanze, è molto più utile attualizzare certi desideri attraverso la pratica, piuttosto che con la sola riflessione psicologica.
Se una persona fosse emotivamente schiava di un aguzzino che la massacra psicologicamente, maledirlo e quindi affermare il proprio odio verso di lui e la situazione creata, affermare il desiderio di non essere più in tale sudditanza, potrebbe essere il primo passo verso una liberazione che conduce dal piano dell’idea a quello pratico e fisico. “Ti maledico per liberarmi del tuo giogo” può diventare, sul piano materiale, il mettere in atto comportamenti progressivi che traghettino verso la liberazione da una situazione emotivamente devastante.
Lo stesso si può applicare al desiderio di vendetta. A volte non è l’oggettività del torto ad essere grande e importante, ma la ferita psicologica che quel torto provoca. Riteniamo molto stupido giudicare l’importanza e la portata dei torti subiti da altre persone. Ognuno di noi ha una sensibilità personale e una propria scala di valori e capacità di sopportazione. Quello che per qualcuno è un piccolo torto, per qualcun altro è un affronto inaccettabile. Per questo ci poniamo sempre in un’ottica comprensiva, laddove ci rendiamo conto che, anche affrontando la discussione con empatia, non potremo mai capire veramente la portata psicologica individuale dei fatti per i quali ci vengono chieste maledizioni. È chiaro che è imprescindibile aiutare la persona a fare un’analisi lucida della situazione, prima che intraprenda la decisione di fare o non fare qualcosa, maledizioni incluse.
Questo aiuto alla chiarezza e alla lucidità è importante non solo perché chi pratica o chiede una maledizione deve avere chiaro cosa c’è nel suo intimo, ma deve avere coscienza anche della portata psicologica che ha lo scegliere di fare “del male” (che sia ostacolare qualcuno nel conseguire un successo o maledirlo a morte). Scegliere di fare “del male” a qualcuno deve avere come presupposto la capacità di comprendere che le cose che succederanno sono da imputarsi a una propria scelta e saper accettare che le conseguenze sono intercorse “per colpa mia”. Ciò non equivale a fare un mea culpa alla Cristiana, ma significa accettare le conseguenze di una scelta e prendersene la responsabilità. Non stiamo parlando di colpo di ritorno o strani boomerang magici, ma più semplicemente dell’essere testimoni della realizzazione di ciò che si è chiesto, ruolo che richiede maturità. Non di rado chi abbraccia con impeto il desiderio di voler fare una maledizione, messo davanti a questo ragionamento cambia idea perché non è pronto ad affrontare le conseguenze psicologiche derivate dalla consapevolezza di aver fatto male a qualcuno. E non solo, spesso emerge che il desiderio di maledire qualcuno non è altro che un travaso di bile momentaneo e superabile con uno sfogo di rabbia per via telefonica. Queste due cose – la difficoltà ad avere a che fare con l’idea del “fare del male” e il comprendere che esistono altre vie, meno drastiche – sono giustissime dal punto di vista psicologico e sociale, in quanto la comunità è portata a conservarsi, non a massacrarsi a colpi di “avada kedavra”.
È ovvio che ciò che comunemente viene definito “colpo di ritorno” spesso non è altro che senso di colpa e colpevolizzazione per ciò che si è fatto o scelto. D’altro canto, quando le persone ci domandano maledizioni chiedendoci se ci sarà un colpo di ritorno, cerchiamo sempre di spiegare questo meccanismo. Ovvero, anche se tu mi deleghi per “compiere il male” al posto tuo, intimamente sai di essere tu il responsabile che ha messo in moto la macchina della vendetta. Questa consapevolezza, se non viene portata dal subconscio al conscio, si tramuta in un senso di colpa subconscio e divorante, che è probabile porti all’autosabotaggio, per una sorta di meccanismo di autopunizione.
Perciò se da un lato scagliare una maledizione può essere liberatorio, bisogna anche conoscersi e sapere come non restare intrappolati nei nostri stessi tranelli psicologici. Ragion per cui il consiglio che diamo più spesso, e che riteniamo valido in generale, ma particolarmente efficace in questo contesto, è di lanciare l’incantesimo e la maledizione, e poi lasciare che le cose facciano il loro corso, senza continuare a rimuginare su cosa si è fatto, senza ulteriori rafforzi del rito, senza dare potere all’azione, perché il primo valore della fattura deve sempre essere quello di catarsi e liberazione, e l’accento sull’idea di star facendo del male non deve essere esasperato. In caso contrario, anziché innescare un processo di catarsi, si innesca la colpevolizzazione, che non aiuta a liberasi del problema, ma lo rafforza, provocando i comunemente chiamati “colpi di ritorno”.
Non stiamo escludendo il fatto che operare con certe energie significa immergersi in esse e, se non si è in grado di gestirle e purificarsi a rituale compiuto, influenzeranno anche noi e non soltanto il bersaglio. Anche in questo caso non si può parlare di “colpi di ritorno”, ma di una non conoscenza dei principi magici che regolano tutte le cose e di una gestione maldestra del rito.
Sulla scelta e sulla necessità di “fare del male” vorremmo lasciare spazio di giudizio ad ognuno. Per quello che ci riguarda, la questione non deve essere posta come la necessità di schierare le proprie azioni con un ipotetico ed ideale Bene e un altrettanto ipotetico ed ideale Male, quanto piuttosto sulla capacità di prendere atto di ciò che si vuole e, con coerenza rispetto a se stessi, farlo o non farlo, a seconda della situazione, dei motivi, dei mezzi a disposizione e del proprio stato psicologico.
Quando si dice “siate responsabili degli incantesimi che mettete in atto o che fate mettere in atto” si intende proprio questo: prendete un attimo per stare con voi stessi, confrontarvi con il vostro intimo e scegliete. Nel momento in cui affermate la vostra scelta, siate un tutt’uno con essa e datele seguito fino in fondo. Se tutto il percorso che separa la scelta dal suo risultato diventa un continuo rimuginare su quanto sia giusta la decisione presa e percorso sul quale state camminando, il nostro consiglio è di lasciar perdere in partenza. Non perché porsi dei dubbi sia sbagliato, ma perché la Magia richiede intento univoco e se questo non le può essere dato, è meglio astenersi. Soprattutto quando si parla di fatture.
Ci è anche capitato che, a posteriori, qualcuno ci abbia chiesto di sciogliere una maledizione fatta per suo conto. Questo è possibile, ma solo in alcuni casi. In altri il realizzarsi delle conseguenze è ineluttabile. Per esempio, se si scegliesse di compiere una fattura a morte e quando le conseguenze iniziano ad essere evidenti ci si chiedesse di scioglierla, sarebbe impossibile farlo. Fortunatamente casi di questo genere non ci sono mai capitati, ma ci è successo che ci abbiano chiesto di fare dei rituali di allontanamento e bando di una persona tossica, e di maledirla perché stesse male ogni qual volta si fosse riavvicinata al richiedente. A distanza di pochi mesi ci venne chiesto di sciogliere tutto perché il problema che aveva portato alla maledizione era risolto. Se ci fosse stata più onestà nel presentarci i fatti forse avremmo individuato la problematica e suggerito di affrontarla in modo diverso m,a a parte questo aspetto, non è stato possibile sciogliere il lavoro fatto, o almeno non nelle modalità richieste, perché eseguito, come pattuito, attraverso l’intermediazione di uno Spirito che non ha accettato alcun ripensamento.
Questo è un esempio palese di quello che vorremmo trasmettervi: quando svolgete una maledizione, siate consapevole di quello che state facendo, di cosa volete ottenere, se lo volete ottenere davvero, se volete che uno Spirito interceda per la vostra causa, e cosa siete disposti a perdere, perché nessuna fattura agisce in un unico senso. Per conseguire lo scopo per la quale la operate, qualcosa verrà tolto anche a voi, fosse anche solo la possibilità di scioglierla o il confortante pensiero di essere “innocenti”.
Al di là di qualunque concettualizzazione di colpi di ritorno e affini, il messaggio che vi vorremmo lasciare è un invito a responsabilizzarvi come persone e come praticanti. Dall’accettazione di chi si è, di ciò che macera nella propria sfera emotiva e dei mezzi che si è disposti ad impiegare, nasce la capacità di essere davvero responsabili delle proprie azioni e coerenti con se stessi, e questo bene è più prezioso di qualsiasi azione orientata al “bene” o al “male”.
Inoltre, ci permettiamo di far notare che tutta la “tiritera newage” che ripete in modo costante che certe emozioni è bene provarle perché sono pure e devono essere amplificate, e che altre sono impure, sbagliate e da confinare, fa danni enormi perché sminuisce ed esclude parte dello spettro dell’emotività umana (ed è anche in virtù di tale sfera che possiamo dirci “umani”). Mutilare la propria emotività per conformarsi a degli standard inesistenti non ha niente a che fare con l’essere una brava persona, e neanche con la Mistica e il Divino.
Bisogna imparare ad osservare come il concetto di “brava persona” sia culturale e cambi di società in società in risposta alla cultura e al ruolo sociale. In alcune società le brave persone sono quelle che ammazzano il nemico o chi compie affronti imperdonabili. Purtroppo, lo standard di “brava persona” secondo la New Age è conformato a quello di “bravo Cristiano”, appiattendo le diversità culturali e quelle derivate dall’abbracciare una fede. Tutte le religioni offrono anche delle concezioni filosofiche dalle quali trarre una certa linea guida comportamentale: non si può pretendere che un Cristiano agisca come un Eteno e viceversa, e neanche che le concezioni etiche e morali di un Cinese siano identiche a quelle di un Islandese. Non perché vi sia un popolo o una religiosità moralmente o eticamente superiore o inferiore, ma perché la società in cui cresciamo determina gran parte dei nostri standard comportamentali e dei nostri valori morali, e quando si slitta verso un’altra religione, per metterla pianamente in pratica, è necessario indurre un cambiamento anche etico e morale.