Lo sciamanesimo e lo sciamano: un’analisi antropologica
Come abbiamo detto nell’articolo riguardante lo shapeshifting, negli ultimi anni lo sciamanesimo è stato portato sotto ai riflettori sia da vari prodotti di intrattenimento, che spesso lo hanno citato, anche di sfuggita, fuori contesto, sia dalla New Age che ha sfruttato le semplificazioni proposte dall’antropologo Michael Harner, e i suoi studi etnografici su questa disciplina, per propinare alla massa qualcosa di edulcorato e distante da qualsiasi tradizionalità.
Tutto questo ha come radice la necessità, sempre più impellente per l’uomo moderno, proteso verso il futuro e un mondo ipertecnologico, di riscoprire se stesso e la sua Terra, sua vera Madre, per comprendere come integrarsi nella Natura, e capire se questa integrazione sia possibile o utopica. Proprio nello sciamanesimo, la più antica forma di religiosità, l’uomo dei nostri tempi cerca le risposte ai grandi dilemmi esistenziali, in un parossistico tentativo di riallacciare lo strappo fra un passato i cui insegnamenti sono difficili da collocare nella modernità, e un futuro sempre più vicino, incombente e incerto. Che lo sciamanesimo abbia o meno le risposte che l’umanità cerca, è comunque di vitale importanza definire in maniera più chiara, spogliata da ogni fuorviante mistificazione, la figura dello sciamano e i fondamenti di questa disciplina. Fosse anche solo per amore di divulgazione e il disperato tentativo di impedire che un numero sempre maggiore di persone cada nella rete dei truffatori, profondamente dannosi, che spesso al posto che aiutare chi si rivolge a loro per “guarire”, provocano nell’animo ferite più profonde e fratture sempre più difficili da sanare.
I primi grandi alleati sono l’antropologia e l’archeologia, che vengono in soccorso con reperti, documenti storici e analisi etnologiche per gettare luce su un fenomeno, quello sciamanico, che con tutta probabilità è vecchio quanto la coscienza umana e per questo difficile da definire nel tempo, nello spazio e soprattutto nel ruolo, nelle tecniche e nella religiosità associata. La scelta del termine “coscienza umana” non è casuale: resta infatti da chiarire se sia stata la coscienza umana a generare l’impulso dell’uomo verso una primordiale forma di ritualità e poi di religiosità, o se la neonata umanità abbia sviluppato dei modelli di comportamento sociale poi sfociati in una primordiale ritualistica e quindi in un fenomeno a carattere religioso, dal quale è emersa e si è formata la coscienza umana.
Cercheremo quindi di compilare un articolo esaustivo, basandoci per lo più sugli studi antropologici ed etnografici di Mircea Eliade, datato e da modernizzare, ma tutt’ora attuale, e di Michael Harner, istitutore della Foundation for Shamanic Studies e sviluppatore dei metodi proposti nell’ambito del Core Shamanism, o Sciamanesimo Transculturale, che riunisce in un’unica disciplina i punti fondamentali e comuni a tutte le culture sciamaniche. Abbiamo deciso di mantenere questo approccio misto e con un occhio di riguardo alla semplicità, per poter rendere questi articoli il più fruibili possibile per i praticanti di qualsiasi culto, vista la mole di scritti ora incompleti, ora parziali, ora troppo incentrati su una sola tradizione (e quindi elitari) di cui è pieno il web. Questo ci costringerà inevitabilmente a non scendere nel dettaglio della singola Tradizione.
SOMMARIO
1. L’origine del termine “sciamanesimo”
2. Diffusione
3. La più antica forma di religiosità
4. Principi fondamentali
5. Il ruolo dello sciamano
6. La chiamata sciamanica e la malattia
7. Gli sciamani ignoranti e l’anargirismo
1. L’ORIGINE DEL TERMINE “SCIAMANESIMO”
Dal XVIII secolo in poi, i termini “sciamano” e “sciamanesimo”, di derivazione tungusa, lingua altaica parlata nella Siberia settentrionale, sono stati estesi a figure e fenomeni religiosi simili, ma non identici, a quelli dell’area siberiana. C’è quindi da far notare che il termine “sciamano” viene adottato come generalizzazione solo in epoca moderna, mentre se guardassimo alla singola cultura locale troveremmo una grande varietà di appellativi, con significati spesso diversi.
Il termine “sciamano” è stato adottato da Mircea Eliade sulla base della parola šamán, che le popolazioni siberiane, sebbene con alcune variazioni fonetiche e sintattiche, adottavano per riferirsi a un individuo avente il ruolo di stregone, sacerdote, guaritore, mistico, psicopompo e di figura liminale che funge da ponte fra la comunità umana e la Natura circostante. Il termine tungusi šamán viene in genere fatto derivare da ša-, conoscere, e mán, uomo, ovvero “uomo che sa”. Un’altra derivazione ipotizzata è da šama-, cioè “muovere i piedi” o “agitare le gambe”, quindi danzare, saltare, accompagnandosi con la voce, usato sia per gli animali che per gli uomini, riferendosi in modo esplicito alle danze rituali dello šamán dei popoli siberiani, caratterizzate dall’imitazione delle movenze degli animali. In altre culture, la pratica rituale, pur se strettamente legata all’emulazione del mondo animale, non costituisce la base etimologica del nome del praticante.
Eliade marca inoltre la possibile derivazione dalla parola sanscrita śramana, che definisce i monaci e mendicanti buddhisti e, più in generale, gli asceti e i monaci dell’area indo-iranica, venendo adottato in particolare per quanti compiono atti di mortificazione personale, fisica o psicologica, a scopo mistico o magico. Infine ipotizza l’ulteriore associazione con il termine shmashān, ovvero “campo crematorio”, basandosi sul ruolo di psicopompo rivestito dallo sciamano in diverse popolazioni dell’area siberiana.
Adottando la medesima convenzione usata dall’ambiente accademico, pur consapevoli che l’attributo di sciamano dovrebbe essere riferito soltanto a quella particolare figura dell’area tungusa, per questo articolo lo useremo invece in senso più generico.
2. DIFFUSIONE
Potremmo riassumere questo paragrafo dicendo che lo sciamanesimo è diffuso in tutto il mondo, ma sarebbe assai riduttivo, anche tenendo conto di quanto detto più sopra riguardo all’etimologia di questa parola, che si riferisce in particolare ad alcune figure dell’area siberiana. Tuttavia, fenomeni simili si riscontrano un po’ in tutte le comunità antiche e delineano una sorta di religiosità o approccio all’esistenza comuni in ogni cultura fin dagli albori della società umana.
Alcuni studi etnografici hanno definito che nell’Asia centrale e settentrionale lo sciamanesimo ha mantenuto la sua forma più pura, essendo i popoli di quelle zone restati isolati più a lungo senza subire contaminazioni culturali. Al contrario, lo sciamanesimo non è un tratto caratteristico né delle popolazioni africane, né di quelle nativo-americane. Nel primo caso, perché i culti africani sono fortemente improntati su una forma di possessione rituale in cui sono gli uomini a chiamare gli Spiriti perché intervengano nel rito, mentre nello sciamanesimo è lo sciamano a recarsi dagli Spiriti; e nel secondo caso perché i culti nativo-americani, a discapito della credenza comune, basata sulla figura romantica del “buon selvaggio”, non in tutti i casi identificano degli individui aventi come ruolo esclusivo quello di mediare fra la comunità e gli Spiriti, com’è invece uno sciamano.
Le ipotesi avanzate per spiegare la diffusione mondiale dello sciamanesimo sono principalmente tre:
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l’ipotesi diffusionista, secondo la quale, avendo l’umanità un’origine comune e poiché le prime comunità furono caratterizzate dal nomadismo, da un gruppo ancestrale la pratica sciamanica venne trasmessa da una comunità all’altra, estendendosi alle diverse parti del mondo
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l’ipotesi di una derivazione comune, per cui lo sciamanesimo si è diffuso a seguito della frammentazione di un’originaria comunità, dovuta a una diaspora da imputarsi a vari fattori, fra cui migrazioni dovute ai cambiamenti climatici o all’alterarsi delle abitudini delle prede, e per la natura attitudine al nomadismo
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l’ipotesi strutturalista, fondata sulle più moderne teorie della neuroscenza, per le quali avendo tutti gli esponenti della specie umana una struttura celebrale simile, essi sono portati a raggiungere conclusioni simili e un’interpretazione dell’esistenza umana riconducibile a delle linee comune
Un modello non esclude l’altro, ed è infatti più plausibile una concomitanza di tutti e tre gli scenari.
3. LA PIÙ ANTICA FORMA DI RELIGIOSITÀ
La storia umana è caratterizzata dal cambiamento e dall’evoluzione. Ciò che era in passato, non è più identico ai giorni nostri e spesso non è più né attuale né attuabile. Le pratiche, i valori e la società stessa evolvono, di giorno in giorno, in base agli stimoli contemporanei, rendendo impossibile tracciare nette equivalenze fra la cultura arcaica e quella moderna.
Fatta questa premessa, sarebbe contraddittorio affermare che lo sciamanesimo, nella forma in cui si attesta ai giorni nostri, sia la religione delle origini. Quello che è corretto affermare è che la prima forma di religiosità seguiva un modello sciamanico, cioè possedeva elementi caratteristici del fenomeno religioso chiamato sciamanesimo, pur non ricalcando in modo esatto la disciplina e la pratica odierne.
Riprendendo il concetto espresso nel capitolo precedente, cioè l’impossibilità di definire se sia stata la coscienza umana ad essere stimolo al definirsi di una ritualità, o viceversa, la certezza che abbiamo è che, qualunque delle due si sia sviluppata prima, ha portato l’uomo a coltivare la propria religiosità. Di questo abbiamo diverse prove storiche, prima fra tutte la formalizzazione della sepoltura, che costituisce una delle prime tipologie di rituale, attestato fin dal Pleistocene Medio (350.000 anni fa). La complessità del rituale funerario aumenta nel tempo, con lo sviluppo e il consolidarsi della civiltà, divenendo un tratto di demarcazione netto fra uomo e animale. Per esempio, fin da 60.000 anni fa troviamo fiori deposti insieme ai cadaveri (come nel caso delle celebre Tomba con Fiori del sito di Shanidar, in Iraq Settentrionale), tombe delimitate da pietre o fossati e, pian piano, assistiamo alla comparsa di necropoli, cioè di luoghi adibiti al solo uso rituale a fini sepolcrali. Questo non costituisce una prova sufficiente per affermare senza ombra di dubbio che, fin da epoca antica, l’uomo credesse in Spiriti, divinità e mondi abitati da creature sovrannaturali, ma attesta che l’essere umano percepiva la differenza fra se stesso e gli altri animali, e che stava sviluppando una forma di coscienza del tutto diversa, che nel tempo sarebbe sfociata in religiosità e sarebbe stata il fondamento di una visione del mondo unica, del tutto diversa da quella di qualsiasi altro essere vivente.
Quasi contemporaneamente alle prime forme di sepoltura caratterizzate da una prassi rituale, fanno la loro comparsa anche le così dette Veneri Paleolitiche, statuette realizzate in diversi materiali, raffiguranti corpi femminili con attributi sessuali (seno, ventre e natiche) molto pronunciati. È quindi possibile che l’osservazione dei cicli naturali e della vita umana stessa sia stata legata alle pratiche sepolcrali, insieme alle quali si generò un culto basato sulla venerazione della femminilità, come elemento che dona la vita, e che con la morte riassorbe la vita, rigenerandola. Anche in questo caso è impossibile definire con certezza l’uso votivo, privato o comunitario, di queste statuette, ma il mondo accademico considera le Veneri come una una prima tipologia di arte sacra, un tentativo, tipicamente umano, di ridurre il Divino ignoto a qualcosa di conosciuto e familiare, come la fisicità femminile, esemplificativa della ciclicità della Natura e al contempo misteriosa per la capacità di dare alla luce la vita.
Infine, un terzo elemento di grande rilievo, è costituito dalle pitture e dalle incisioni rupestri, che caratterizzano l’ultima fase del Paleolitico, comparse circa 40.000 anni fa come espressione artistica del mondo circostante e aventi ruolo religioso, rituale e sociale. Recenti studi hanno attribuito all’arte rupestre una funzione spiccatamente sciamanica, cioè propiziatoria, figurativa, comunicativa e storica, avente come fine il creare una base di linguaggio comune su più livelli (di immagine e di parola) e il consolidare la memoria storica della comunità per rinsaldare i legami e i ruoli degli elementi del nucleo sociale. Gli studi più moderni reputano l’arte rupestre legata a doppio filo con un tipo di religiosità sciamanica: se da una parte è indubbio che l’uomo rappresentasse il mondo circostante sulle pareti delle grotte, probabilmente per fini propiziatori, d’altra parte è altrettanto possibile che la figura che rivestiva nella comunità un ruolo sciamanico trasponesse in forma grafica ciò che vedeva durante una supposta trance sacra indotta, forse con lo scopo di ottenere presagi dal mondo sovrannaturale per aiutare il proprio gruppo. Non è da escludere, inoltre, che l’atto stesso del creare pitture e incisioni rupestri avesse valenza sacrale e che quindi la comunità si raccogliesse intorno a esse per manifestarle nella realtà attraverso il rituale. Un importante esempio, a noi molto vicino, di incisioni rupestri è quello della Val Camonica, sito considerato patrimonio dell’UNESCO, nel quale se ne contano più di 140.000. Riportiamo questo particolare per ricordare che, nonostante la tendenza a considerare di retaggio sciamanico solo zone in cui questo fenomeno è sopravvissuto fino ai giorni nostri, esso è una base comune a tutte le aree del mondo e anche in Italia ne abbiamo conosciuto una forma, evolutasi in culti più articolati.
Le sepolture formalizzate, le Veneri e le pitture rupestri testimoniano che l’uomo paleolitico stava coltivando una visione religiosa del mondo e una coscienza individuale dalla quale germogliava la necessità di comprendere il suo posto nell’universo. Molti antropologi ritengono che già a quel punto della storia umana, l’uomo si sentiva diverso e distante dagli altri animali, immerso in una Natura di cui aveva consapevolezza, ma di cui era in costante balia, che cercava di controllare, nella quale tentava disperatamente di sopravvivere, sviluppando non solo primordiali forme di tecnologia, ma anche quella genialità di pensiero responsabile dell’innovazione e dell’espressione artistica. Credere che il mondo circostante fosse caratterizzato da Spiriti che poteva attrarre o scacciare, ingraziarsi o contrariare, costituiva un modello di pensiero rassicurante e un punto focale attraverso il quale non sentirsi più alieno, ma ancorarsi a una realtà di cui potesse sentirsi parte integrante. Allo stesso modo, per porre rimedio al trauma generato dalla morte degli individui della propria specie, l’uomo organizzò il rituale funerario, sviluppando l’idea che, una volta terminata la propria esistenza terrena, la persona continuasse a vivere sotto altre spoglie, riassorbito e rigenerato dal ventre della Madre Terra.
Dal momento in cui l’uomo ha smesso di subire passivamente la Natura, ha cercato di farne parte in modo attivo e di studiarla con i mezzi a sua disposizione. Ha quindi sentito il bisogno di schematizzarla e, non conoscendo altro modo per spiegarsi i vari fenomeni naturali ed esistenziali se non quello sovrannaturale, li ha legati a degli Spiriti. Ogni cosa di cui poteva cibarsi, ogni cosa che invece non poteva mangiare, ogni elemento naturale, ogni stella nel cielo, ogni animale cacciato o allevato, ogni pianta officinale o velenosa, venne così divinizzata, ritenuta dotata di uno Spirito di natura preterumana che ne riassumeva le caratteristiche, i doni, il potere e il carattere, tutti elementi propri anche al singolo esponente della razza umana. Creando questo rapporto paritario (almeno nella struttura) fra entità sovrannaturali e mortali, l’uomo si è dato i mezzi e gli strumenti per potersi relazionare all’esistenza in modo religioso e mistico.
È necessario sottolineare, per non generare straniamento nel lettore che si aspettava un’analisi esoterica e magica, che abbiamo preferito adottare un approccio antropologico per poter chiarire alcuni punti storici necessari a definire il fenomeno sciamanico e a non trattarlo in modo superficiale o adulterato. Quanto detto, poche righe sopra, e questo approccio in genere, posso risultare cinici e crudi, ma sono necessari per porsi nell’ottica di uno studio oggettivo e spogliare lo sciamanesimo da quella misticità posticcia spesso attribuitagli da una visione tipicamente new age. Al contempo, è necessario spogliare l’uomo di quella patina di superbia e unicità di cui si fa scudo per giustificare se stesso e sentirsi speciale, sopperendo così al proprio vuoto esistenziale.
4. PRINCIPI FONDAMENTALI
Lo sciamanesimo non è un fenomeno unitario, ma in tutte le sue forme presenta dei punti comuni che aiutano a riconoscerlo e che caratterizzano le società che lo adottano come modello religioso.
Primo fra tutti è l’animismo, ovvero la credenza secondo la quale in ogni fenomeno ed elemento naturale, animale o vegetale, è presente uno Spirito. Nello sciamanesimo, lo Spirito o l’anima delle cose, è quel principio sovrannaturale responsabile del ciclo vitale di ogni creatura vivente e del suo particolare potere, inteso come risultato di tratti biologici e qualità trascendenti. La materia vivente è quindi tale solo se animata dallo Spirito.
Gli Spiriti sono quindi detentori di un sapere superiore a quello umano, trascendente la mera materia, e in quanto tali possono essere interpellati dallo sciamano per diversi fini. Uno è la richiesta di potere, il quale non è proprio dell’uomo, ma è una concessione degli Spiriti, con cui egli può stringere un’alleanza che gli permetta di condividerne il potere.
C’è da sottolineare che nei culti sciamanici, è lo sciamano a recarsi dagli Spiriti per chiederne l’intercessione. È lui che, attraverso il viaggio sciamanico o la trance indotta accede a un’altra dimensione di esistenza, nella quale può interfacciarsi con gli Spiriti, stringere alleanze con loro per conto proprio o della comunità, riceverne gli insegnamenti, chiedere consiglio. La relazione fra lo sciamano e gli Spiriti non è unidirezionale, caratterizzata dal sicuro successo dell’uomo, ma bidirezionale e, per questo, fallibile: non sempre, infatti, gli Spiriti concedono il loro favore o rispondono nei termini in cui lo sciamano si aspetta.
Solo negli ultimi anni, il fenomeno della possessione rituale, tipico dei culti para-africani, è stato fatto rientrare nella casistica dello sciamanesimo. Mircea Eliade, agli albori dello studio di queste discipline, considerava invece la possessione una caratteristica del tutto non sciamanica, che rompeva la regola tipica dell’area tungusa che vuole che siano i mortali ad andare dagli Spiriti, e mai viceversa. Di fatti, durante la possessione rituale sono gli Spiriti che irrompono fra i presenti e che, manifestandosi attraverso segni precisi, concedono o meno il proprio favore ai fedeli. L’intervento del soprannaturale si svolge, in questo caso, nel mondo materiale e non in una dimensione spirituale. La cosa importante da ricordare è che l’idea di una possessione sempre e comunque malevola e nociva, perpetrata dagli agenti del “male”, è tipicamente cristiana. Se guardiamo ad altri contesti religiosi non esistono Spiriti buoni o cattivi in assoluto: ognuno di essi ha una funzione e una personalità differenti che vengono manifestate tanto a livello energetico, quanto fisico.
Un altro tratto distintivo dello sciamanesimo è la ricerca degli strumenti per indurre uno stato di trance, carattere sacrale, anche detto “viaggio sciamanico”, che talvolta si risolve in una vera e propria estasi mistica in cui lo sciamano sperimenta un profondo senso di unione con la Natura e i suoi Spiriti, riuscendo a entrare in comunione con quello che spesso viene definito Grande Spirito, o Assoluto in filosofia. È importante rimarcare che questa trance è sempre indotta in modo consapevole e mai casuale o sregolata, come la New Age induce molti a pensare.
A scanso di equivoci, bisogna dire che la trance poteva essere indotta tanto da danze, musica e canti, specialmente accompagnati dal suono frenetico, ritmico e roboante del tamburo, ma anche dall’utilizzo di sostanze enteogene, cioè una particolare classe di psicotropi in grado di facilitare il raggiungimento di stati allucinatori caratterizzati da esperienze mistiche. Non tutte le droghe psicoattive sono adatte a questo scopo e nelle varie aree del mondo, in accordo con la fauna e la flora locali, gli sciamani ne hanno utilizzate diverse.
Il più importante dei problemi con cui lo sciamano si relaziona è però quello ecologico. Tradizionalmente è attestato che le culture di tipo sciamanico non erano vegetariane, questo perché la specie umana è onnivora, come dimostrano la sua dentatura, il suo apparato digerente e, più in generale, la biologia. Infatti, è tipico degli erbivori avere due o più stomaci, basti pensare alla mucca che ne ha ben quattro e che mastica almeno tre volte il proprio cibo, rigurgitandolo in bocca da uno stomaco all’altro. Lo stesso non accade negli esseri umani. Guardando al ruolo dello sciamano, egli doveva anche propiziare la caccia e la raccolta. Doveva quindi ricordare dove trovare i diversi alimenti, come trattarli e, in caso di scarsità di cibo, provvedere a contattare gli Spiriti per ricevere suggerimenti o svolgere azioni riparatorie. La relazione fra lo sciamano e l’ecosistema è quindi stretta anche dal punto di vista alimentare, oltre che spirituale. C’è quindi da smentire l’immagine, propinata dagli animalisti estremisti, per la quale la colpa di tutti i mali del mondo sia da attribuire all’onnivorismo e al fatto che l’uomo si cibi di carne, quando invece dovrebbe tornare a una dieta vegetariana, caratteristica, secondo loro, dell’uomo di Neanderthal e dei suoi successori. Idee che non hanno alcun fondamento archeologico, e ampiamente smentite dai ritrovamenti di resti animali macellati nelle caverne e negli insediamenti umani.
Lungi dall’essere assicurazione di reale elevazione, una scelta alimentare vegetariana o vegana è qualcosa di personale, che nulla ha a che vedere con la spiritualità. È quindi assurdo attribuire agli sciamani e alle culture sciamaniche una scelta alimentare che non avrebbero mai potuto portare avanti in quel periodo storico, e che in qualche modo infrange non solo la biologia umana, ma persino l’equilibrio dell’ecosistema. La caccia infatti serviva anche a preservare gli insediamenti e a mantenere il giusto rapporto fra la quantità di predatori e prede, indispensabile per conservare intatto l’ambiente naturale circostante.
5. IL RUOLO DELLO SCIAMANO
In generale, possiamo definire lo sciamano come un uomo che, attraverso pratiche diverse, è in grado di raggiungere stati alterati di coscienza per contattare gli Spiriti, viaggiare in dimensioni spirituali e fare da canale terreno per le energie sottili.
Il ruolo che riveste all’interno delle società umane è indefinibile in modo univoco, poiché di volta in volta, secondo necessità, lo sciamano assume ora ruolo di guaritore, ora di stregone, mistico, veggente, consigliere, erborista e, non di meno, quello di buffone divino o trickster. Insieme a quella di psicopompo, cioè di accompagnatore delle anime nell’aldilà, la sua natura di trickster definisce lo sciamano come figura liminale all’interno della società umana, un individuo che vive ai margini della stessa, isolato lontano dalla vita della comunità, che si rivolge a lui solo in caso di necessità. Proprio questa assenza di coinvolgimento politico (e spesso religioso, poiché non in tutti i casi egli è anche sacerdote), determina l’attitudine mistica dello sciamano e lo colloca nel ruolo di figura non del tutto umana, completamente protesa verso il mondo sovrannaturale e gli Spiriti, i quali lo contagiano con la propria natura.
Uno dei motivi che portava lo sciamano a essere isolato dalla propria comunità è la malattia. Non era raro, infatti, che essa fosse considerata uno status divino, una peculiarità, un’alterazione irreversibile della normalità umana che portava l’ammalato a essere diverso e quindi più vicino al sovrannaturale. Convulsioni epilettiche e psicopatie erano spesso tenute in gran conto, per via della stranezza e dell’inspiegabilità, la cui natura era dunque considerata spirituale e alla quale si attribuiva un ruolo sacrale. Non di meno, allontanare gli individui malati era un modo per preservare la normalità della comunità, salvaguardarne la salute e inquadrare il malato in uno schema utile a poterlo gestire.
Per via delle stranezze donate dalla malattia o dalla vita mistica alla quale lo sciamano si votava, egli assumeva anche il ruolo di buffone divino o trickster, termini che non coincidono in modo perfetto, ma che spesso vengono utilizzati come equivalenti o come sfumature di significato per indicare ora l’aspetto più positivo, ora quello più caotico e negativo. Queste due facce convivono nella stessa figura e la rendono in apparenza contraddittoria: ogni aspetto è solo una maschera da indossare temporaneamente, per trasmettere un insegnamento o compiere un’azione, beandosi della propria abilità di metamorfosi, sbeffeggiando la comunità a sua insaputa. Un atteggiamento del genere potrebbe essere giudicato meschino, ma è invece la grande forza delle società sciamaniche: gli inganni e il caos benigni gettati dallo sciamano impediscono il ristagno culturale che porta alla morte e all’imbruttimento sociale.
Il rapporto dello sciamano con la Tradizione è complesso, perché non è limitato dalla convenzione né circoscritto al passato. Per la sua natura non ordinaria, per il suo rivestire un ruolo liminale, lo sciamano apprende presto quando è lecito imporre l’applicazione della Tradizione e quando, al contrario, questa deve essere trascesa, adeguata al tempo storico, migliorata e arricchita, senza paura di integrare il nuovo e il diverso, senza il timore di rendere attuale il futuro incombente. Tutto questo senza però perdere di vista il rispetto per gli Spiriti e gli Antenati, e senza rinunciare all’importanza del passato e delle radici, che sono l’unico percorso attraverso il quale si può formare, assicurare e coltivare l’identità del gruppo sociale, quello che lo sciamano è chiamato a preservare.
6. LA CHIAMATA SCIAMANICA E LA MALATTIA
Nessuno riceve una email dagli Spiriti perché lo obblighino a seguire un percorso sciamanico – la famosa “chiamata” non è questo, non si basa sull’autocompiacimento narcisistico né sull‘esaltazione del proprio ego. Anche nel momento in cui i presagi sembrano consigliare di intraprendere la via dello sciamanesimo, è comunque una scelta individuale se seguirlo o meno. La scelta di una via spirituale non è mai un obbligo, è sempre una decisione personale che dovrebbe essere libera, consapevole e informata.
Un tempo la chiamata era una realtà molto più quotidiana nella vita delle comunità, perché era di vitale importanza trovare un sostituto allo sciamano e addestrarlo in previsione alla sua dipartita terrena. Venivano quindi scelti i bambini più promettenti, quelli indicati dagli Spiriti, quelli che eventualmente avessero manifestato una particolare sensibilità e predisposizione, e addestrati fin da subito perché apprendessero tutto ciò che era necessario conoscere per diventare uno sciamano e non perdere la memoria storica della comunità e preservarne il retaggio culturale. Al di fuori delle società sciamaniche, invece, la chiamata è un fatto quasi inesistente, perché privo del suo significato originale. Si diventa quindi sciamani in seguito di un lungo percorso di studio, conoscenza e introspezione, ma resta importante il ruolo degli Spiriti: il titolo di “sciamano” non è mai auto-attribuito o attribuito da altri umani, ma sempre concesso dagli Spiriti insieme al loro potere, e del titolo e del potere l’uomo può essere spogliato in qualsiasi momento, se tradisce la fiducia o infanga il rispetto che è fondamentale tributare agli Spiriti, alla Tradizione e alla Natura in ognuno dei suoi aspetti.
Come detto, non di rado, la malattia è un tratto caratteristico della vocazione sciamanica, che distingue lo sciamano dal resto del villaggio, ma che al contempo deve essere curato apprendendo le discipline della guarigione e della mistica, le uniche a poter lenire il disagio, anche esistenziale, del malato. In questo senso, per quanto la malattia sia a tratti alla stregua di una caratteristica sovrannaturale, guarirla è il punto focale attorno al quale ruota la gran parte della professione dello sciamano. Egli è infatti deputato a curare ferite, infezioni, malattie, assicurando il protrarsi della vita nel villaggio. Per farlo ha a propria disposizione tanto una vasta cultura erboristica, medica e chirurgica, quanto la ritualità, la trance sacra e il contatto con gli Spiriti: entrambi questi aspetti concorrono alla guarigione perché la malattia non è mai considerata solo conseguenza di fattori fisici, ma anche uno stato dell’anima, generatori per ragioni che risiedono nelle dimensioni spirituali.
7. GLI SCIAMANI IGNORANTI E L’ANARGIRISMO
Un’idea molto diffusa e importante da eradicare è quella che vede gli sciamani come analfabeti ignoranti avulsi dalla cultura del proprio popolo. In una società illetterata, in cui la scrittura non esiste, la gran parte della comunicazione avviene attraverso la parola e le informazioni storiche, sapienziali, tecnologiche e mistiche vengono trasmesse per via orale. Di questa tradizione orale, lo sciamano è depositario e custode, ma il suo ruolo non si esaurisce nel ricordare a memoria la storia della propria tribù, gli Antenati importanti, le leggende riguardanti l’origine del mondo, i doni degli Spiriti, le virtù delle erbe, i processi tecnologici: è anche responsabile della loro trasmissione e, ancor più, di indagare questo sapere per ampliarlo giorno dopo giorno. Equivale, in qualche modo, a un moderno ricercatore plurilaureato, la cui competenza non è ristretta a un campo specifico, ma abbraccia allo stesso modo tutta la cultura disponibile nella sua società.
È quindi lecito affermare, che nella società odierna, chi si avvicina allo sciamanesimo pretendendo di mantenersi illetterato e ignorante, arrivando a combattere la diffusione del sapere attraverso i libri, a favore della sola sperimentazione empirica attraverso un sentire tanto personale, quanto potenzialmente fallace, è quanto di più lontano possa esserci dalla figura tradizionale dello sciamano, che è, fra i tanti suoi ruoli, anche un cultore del sapere. È vero che, fino a una cinquantina di anni fa, in Italia come in altre parti del mondo, alcune piccole comunità erano caratterizzate da un basso grado di alfabetizzazione, pur presentando alcuni individui, detentori di un sapere ancestrale, in grado di guarire, consigliare e prendersi cura del villaggio in modo sostanziale: con la globalizzazione, l’industrializzazione massiccia, l’ampliarsi delle città, l’avvento di internet e l’obbligatorietà dell’istruzione, lo sciamano, per quanto riguarda l’Occidente, si sta tramutando in una figura colta, informata sull’attualità, volto verso l’integrazione (culturale, etnica ed ecologica), membro attivo, anche socialmente, della propria comunità, che non si riduce più al villaggio o alla famiglia, ma abbraccia l’intero mondo.
Un discorso simile, visti i fraintendimenti, è da fare per l’anargirismo, cioè il divieto tradizionale per lo sciamano di ricevere compensi in denaro. Esso aveva senso in comunità ristrette, basate sul baratto, nelle quali quello di sciamano era a tutti gli effetti un lavoro a tempo pieno, che impediva la possibilità di procacciarsi il necessario per vivere. Infatti egli era totalmente dipendente dalla comunità, esattamente come la sopravvivenza della comunità dipendeva anche dall’opera dello sciamano.
Oggigiorno, l’anargirismo rianalizzato in modo moderno e non inteso in senso stretto. Nella società occidentale, è tollerabile il pagamento monetario, ma dovrebbe ancora essere preferito il baratto di beni: a fronte di una prestazione di qualsiasi genere deve sempre esserci un compenso, per poter mettere sullo stesso piano operatore e cliente, e non porre il secondo in una posizione di inferiorità e di debito, per non indurre uno stato di dipendenza e sudditanza. Questa affermazione non si basa soltanto sul concetto esoterico di equo scambio, ma anche su studi di psicologia che hanno evidenziato, e categorizzati come dannosi e narcisistici, quei rapporti umani in cui solo uno dei termini della coppia dona all’altro, che riceve all’inizio con piacere, poi con disagio e infine con obbligo, sentendo di dover ripagare l’altro con obbedienza e sottomissione – tutto il contrario di quello che dovrebbe essere un rapporto costruttivo fra due individui e, ancor più, fra lo sciamano e chi ne richiede l’aiuto.
D’altra parte, sempre l’Occidente, con la sua mercificazione della spiritualità, ci ha abituati a pensare che sia giusto pagare cifre esorbitanti per ricevere poco, purché esso appartenga al mondo magico e alla sfera del mistero. Anche questo, soprattutto se giunge da sedicenti sciamani, è un comportamento aberrante, che sporca una disciplina millenaria fondata sull’equilibrio e l’equità. Dunque è corretto pagare un prezzo per i servizi, non è corretto che gli operatori fissino prezzi inarrivabili, fuori dalla portata dei più.
Con questo articolo, speriamo di aver fatto un po’ di chiarezza su quello che è il corretto inquadramento antropologico del fenomeno dello sciamanesimo, dissipando i molti dubbi di cui in passato ci avete resi partecipi.
Se avete avuto la tempra di leggere questo articolo per intero, vi ringraziamo e speriamo vi sia stato utile. Nel caso in cui aveste domande, non esitate a farcele pervenire sulla nostra pagina Facebook oppure al nostro indirizzo email: info@nexusarcanum.it.
Grazie.
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Riccardo
Ci sono alcune imperfezioni di carattere antropologico alquanto gravi: 1) l’uomo del paleolitico non può aver sviluppato una “coscienza individuale”. Il concetto di individuo è un concetto moderno peculiare alla cultura occidentale. Le società animiste erano sociocentriche e si pensavano come “dividui” 2) il paragone con la mucca è insostenibile: la mucca è erbivora e non vegetariana. Come è stato ben dimostrato e spiegato dall’antropologo Collier l’uomo è originariamente vegetariano e carnivoro per necessità. Anatomicamente l’uomo per sua natura non è fornito si dispostivi atti a inseguire, aggredire, uccidere e masticare carne cruda. Facchini, docente all’unibo e Perles docente a Parigi, sostengono che il passaggio che va dal vegetarianismo alla caccia ha attraversato una fase intermedia di scacallaggio. E ben nota a tutta L’antropologa come alla biologia, cioè è scientificamente dimostrato che l’uomo per sua natura e vegetariano. Sarebbe corretto apportassi alcune correzioni al testo che resta redatto molto bene. Complimenti
Nexus Arcanum
Ciao Riccardo,
affrontiamo le obiezioni che poni una per volta.
1) l’uomo del paleolitico non può aver sviluppato una “coscienza individuale”. Il concetto di individuo è un concetto moderno peculiare alla cultura occidentale. Le società animiste erano sociocentriche e si pensavano come “dividui”
Partiamo dal presupposto che qualsiasi teoria è, appunto, una teoria. Esistono vari modelli per spiegare il fenomeno della coscienza umana. Noi ci rifacciamo a Julien Reis e, a questo proposito, ti segnaliamo questo articolo, che chiarisce la nostra posizione in merito: https://www.atopon.it/le-origini-della-coscienza-nell-uomo-arcaico/
Può essere considerato errato definire la coscienza dell’uomo paleolitico come “individuale”, ma (accodandoci a Reis) reputiamo che la presenza di rituali funebri già presso l’H. abilis testimoni l’idea di un’individualità dei vari membri della comunità, i quali sono percepiti come “individuali” e pertanto “individualmente” sepolti. Con l’epoca di Neandertal abbiamo addirittura testimonianza di processi relativi alla sopravvivenza della memoria del morto nella collettività e questo testimonia senza ombra di dubbio il fatto che già nel Paleolitico fosse in formazione una primitiva forma di coscienza individuale, che permetteva all’individuo all’interno della sua società di essere consapevole della sua separazione (individualità) rispetto ai suoi simili e consapevole anche che lui e i suoi simili non erano un tutt’uno all’interno del processo naturale di vita e morte. Queste concezioni iniziano nel Paleolitico e progrediscono durante tutto questo periodo, non è possibile individuare un momento preciso per la presa di coscienza dell’uomo.
C’è anche da dire che “essere consapevoli” della propria individualità non significa applicare un modello “sociocentrico” o “egocentrico”. Coesiste l’idea di una presa di coscienza della propria individualità come elemento separato dagli altri elementi della propria specie con l’idea di comunità sociocentriche nelle quali le necessità della collettività erano anteposte a quelle dell’individuo. Eccetto in alcuni casi specifici, come nella morte, appunto, la quale si manifesta come fenomeno individuale che permette la comprensione dell’individualità, e che viene “individualmente amministrata” con riti che aiutino l’anima di quello specifico individuo ad affrontare i processi post-mortem (sia che questi riguardassero la reimmissione nel ciclo naturale o la ricongiunzione con gli Antenati, eventualità sulle quali sono possibili soltanto ipotesi e non può esservi certezza).
È chiaro che il concetto di “individuo” è culturale, esattamente come quello di “coscienza”. Laddove, come in questo caso, vengono tracciate empie linee generali su un argomento è normale dover appiattire alcune differenze. D’altra parte, lo stesso termine “sciamanesimo” viene utilizzato in modo improprio ed espanso, come è stato spiegato. Per cui non ha alcun senso affermare che l’uomo primitivo si percepiva come un “dividuo” in un contesto “sociocentrico”, poiché lo stesso termine “dividuo” – per quello che ne sappiamo noi, ma siamo aperti a rimandi a fonti che chiariscano meglio – è circoscritto a determinate aree culturali e tutt’altro che universale.
Quando si parla di coscienza umana in sostanza non si può assumere alcuna posizione per certa.
2) il paragone con la mucca è insostenibile: la mucca è erbivora e non vegetariana. Come è stato ben dimostrato e spiegato dall’antropologo Collier l’uomo è originariamente vegetariano e carnivoro per necessità. Anatomicamente l’uomo per sua natura non è fornito si dispostivi atti a inseguire, aggredire, uccidere e masticare carne cruda. Facchini, docente all’unibo e Perles docente a Parigi, sostengono che il passaggio che va dal vegetarianismo alla caccia ha attraversato una fase intermedia di scacallaggio. E ben nota a tutta L’antropologa come alla biologia, cioè è scientificamente dimostrato che l’uomo per sua natura e vegetariano.
Si è creata un po’ di confusione. Andiamo per gradi.
– Certo, la mucca non è vegetariana, è erbivora. L’esempio è stato usato in modo provocatorio.
– Certo, l’uomo ha subito numerosi cambiamenti di dieta dal Paleolitico al Paleolitico Superiore fino alla modernità. Per esempio, a un certo punto, in corrispondenza della Grande Glaciazione, ha iniziato ha mangiare un sacco di carne in più, per sopperire al fabbisogno energetico che non poteva soddisfare cibandosi soprattutto di vegetali. Lì la tendenza si inverte e la sua dieta si caratterizza con presenza crescente di carne. Cambia la dentatura. Cambia la struttura cranica. Cambia la muscolatura del viso. Probabilmente, ciò coincide con un passaggio di abitudini alimentari e sociali, ma non c’è alcuna evidenza – a noi nota, almeno (se ti è nota, per favore, condividila corredata da fonti) a per la quale l’uomo fosse, in origine, vegetariano e non consumasse carne. È il problema del ragionare per categorie stagne. È probabile che fosse tendente a uno stile di vita vegetariano per facilità di “gestione” della sua alimentazione e perché ancora non in possesso di strumenti utili/sufficienti per cacciare in modo efficace (d’altra parte, nell’animale gli strumenti/armi coincidono con le membra del suo corpo e – diciamocelo – l’uomo non è mai stato particolarmente performante sotto questo punto di vista, ma ha imparato a compensare con l’ingegno e l’abilità nel costruire utensili, che lo hanno portato ad essere un predatore temibile, nel corso dei millenni). Ma la tendenza a uno stile di vita vegetariano non esclude il consumo di carne, per cui si può davvero parlare di un primigenio uomo vegetariano? A nostro avviso no.
– Per quanto riguarda le culture sciamaniche, e noi stiamo parlando di quelle, abbiamo volutamente omesso una datazione, perché non è chiaro in quale punto della storia umana la religiosità sia stata caratterizzata da elementi definibili “sciamanici” (ammettendo di estendere il termine tunguso anche al di fuori di quell’area culturale). Potremmo assumere che ciò sia accaduto nel Paleolitico Superiore, caratterizzato fra l’altro dall’arte rupestre, che è testimonianza di un primo pensiero mitologico e religioso in qualche modo univoco. Nel Paleolitico Superiore l’uomo non era di certo vegetariano, bensì onnivoro, come dimostra la paleoantropologia.
-Sui cambiamenti di dieta e analisi dei reperti al fine di definire quale dieta avesse l’uomo primitivo, ti lasciamo alcuni testi di riferimento: Meat in the human diet: An anthropological perspective (di N. Mann) e Evidence for meat eating by early humans (di B. Pobiner, lo trovi qui: https://www.nature.com/scitable/knowledge/library/evidence-for-meat-eating-by-early-humans-103874273/). Questo secondo testo ti fornisce anche una più ampia bibliografia di confronto sul tema.
Detto questo, una nota metodologica.
Non contestiamo la contestazione. È fisiologica, soprattutto quando l’argomento è così complesso.
Ti invitiamo però, quando muovi delle critiche e citi degli autori, a fornire i testi di riferimento o a riportare i paragrafi, altrimenti si aggiunge incomprensione all’incomprensione e diventa difficile arrivare a un dunque. Conoscere un autore di fama non significa sapere in automatico a quale passaggio del suo lavoro ti stai riferendo. I quote e i rimandi sono un aiuto alla risposta. Altrimenti la critica resta una critica, e non un reale invito ad apportare una correzione pensata che aiuti ad eliminare incomprensioni e informazioni non espresse con la dovuta chiarezza.
In ogni caso, ti ringraziamo per i complimenti e valuteremo se e come apportare delle correzioni.